La corte dei Gonzaga

Non si sa esattamente quando Monteverdi lasciò la sua città natale, ma entrò alle dipendenze del duca di Mantova verso il 1590 come suonatore di archi. Entrò subito in contatto con alcuni dei migliori musicisti, sia esecutori che compositori, dell’epoca. Il compositore che lo influenzò maggiormente sembra essere stato il fiammingo Giaches de Wert, un modernista che, sebbene non più giovane, era ancora nel pieno di un movimento d’avanguardia negli anni 1590. Il punto cruciale del suo stile era che la musica doveva corrispondere esattamente all’umore del verso e che la naturale declamazione delle parole doveva essere seguita con attenzione. Poiché Wert scelse di usare la lirica altamente concentrata ed emotiva di Tasso e del rivale di Tasso, Battista Guarini, anche la musica di Wert divenne altamente emotiva, anche se poco melodiosa e difficile da cantare. Ebbe un effetto immediato su Monteverdi, il cui successivo libro di madrigali, pubblicato nel suo primo anno a Mantova, mostra l’influenza del nuovo movimento su di lui, sebbene la sua comprensione fosse imperfetta. Esso rappresentò per lui un completo cambiamento di direzione. La melodia è spigolosa, l’armonia sempre più dissonante, l’umore teso fino alla nevrosi. Guarini è il poeta preferito, e ogni sfumatura del verso viene espressa, anche a scapito dell’equilibrio musicale.

Il nuovo stile e il nuovo ambiente sembrano aver sconvolto la sua produttività. Anche se continuò a comporre, pubblicò poco per i successivi 11 anni. Nel 1595 accompagnò il suo datore di lavoro in una spedizione in Ungheria e quattro anni dopo nelle Fiandre. Nel 1599 circa sposò una cantante, Claudia Cattaneo, dalla quale ebbe tre figli, uno dei quali morì nell’infanzia. Quando il posto di maestro di cappella, o direttore di musica, per il duca divenne vacante alla morte di Wert nel 1596, Monteverdi fu amareggiato per essere stato scavalcato, ma alla fine ottenne la posizione nel 1602, all’età di 35 anni. Pubblicò altri due libri di madrigali nel 1603 e nel 1605, entrambi contenenti capolavori. La maniera avanguardista era ora meglio assimilata nel suo idioma. Mentre il suo scopo era ancora quello di seguire il significato del verso nei minimi dettagli, egli risolse i problemi puramente musicali dello sviluppo tematico e della proporzione. Anche se le dissonanze divennero più severe e la melodia a volte ancora più spigolosa, l’effetto totale era più vario nell’emozione e meno nevrotico. Se l’erotismo di Guarini stimolò uno stile musicale sensuale, Monteverdi diede spesso ai suoi madrigali maturi leggerezza e umorismo, vedendo l’essenza di una poesia piuttosto che il suo dettaglio.

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Sono stati i mezzi musicali avanzati, soprattutto l’uso di dissonanze intense e prolungate, a provocare gli attacchi dei conservatori a Monteverdi, che divenne una figura di spicco del gruppo d’avanguardia. Gli attacchi di un teorico bolognese, Giovanni Maria Artusi, in una serie di pamphlet, resero Monteverdi il più famoso compositore dell’epoca e lo indussero a rispondere con un’importante dichiarazione estetica della sua visione sulla natura della sua arte. Disconosceva il ruolo di rivoluzionario, dicendo che era solo il seguace di una tradizione che si era sviluppata negli ultimi 50 anni o più. Questa tradizione cercava di creare un’unione delle arti, specialmente delle parole e della musica, per cui non doveva essere giudicato semplicemente come un compositore che utilizzava dispositivi musicali convenzionali. Inoltre, l’opera d’arte deve essere abbastanza potente da “muovere tutto l’uomo”, e questo potrebbe significare di nuovo l’abbandono di certe convenzioni. D’altra parte, egli dichiarava la sua fede in un’altra e più antica tradizione, in cui la musica era essa stessa suprema, e che era, in effetti, rappresentata dalla polifonia pura di compositori come Josquin des Prez e Giovanni Palestrina. C’erano dunque due “pratiche”, come lui le chiamava; e questa visione, che divenne immensamente influente, si rivelò la base della conservazione di uno stile antico in certi tipi di musica da chiesa, in opposizione a uno stile moderno nell’opera e nelle cantate, una dicotomia che si può ritrovare fino al XIX secolo.

Monteverdi, Claudio: La favola d’Orfeo

Un esempio di recitativo operistico precoce, “Tu sei morta, mia vita, ed io respire,” dall’Atto II de La favola d’Orfeo di Claudio Monteverdi (1607; “La favola di Orfeo”); da una registrazione dal vivo del 2004 di La Grande Écurie et la Chambre du Roy, diretta da Jean-Claude Malgoire.

Per gentile concessione di Naxos of America, Inc.

Se i madrigali di quel tempo gli diedero una reputazione ben al di fuori dell’Italia settentrionale, fu la sua prima opera, Orfeo, rappresentata nel 1607, che lo affermò definitivamente come compositore di musica su larga scala piuttosto che di squisiti lavori in miniatura. Monteverdi potrebbe aver assistito ad alcune delle rappresentazioni delle prime opere, quelle composte dai compositori fiorentini Jacopo Peri e Giulio Caccini, e certamente aveva scritto della musica di scena negli anni precedenti. In Orfeo dimostrò di avere una concezione molto più ampia del nuovo genere rispetto ai suoi predecessori. Combinò l’opulenza dei divertimenti drammatici del tardo Rinascimento con la schiettezza di una semplice storia pastorale raccontata in recitativo, che era l’ideale dei fiorentini. Il suo recitativo è più flessibile ed espressivo del loro, basato sulla melodia declamatoria dei suoi madrigali piuttosto che sulle loro teorie sul discorso accentuato. Soprattutto, aveva un dono maggiore per l’unità drammatica, modellando interi atti in unità musicali, piuttosto che assemblandoli da piccole sezioni. Mostrò anche il senso di far coincidere i momenti culminanti del dramma con quelli musicali, usando la dissonanza, il virtuosismo del cantante o le sonorità strumentali per creare il senso di un’elevata emozione.

Monteverdi, Claudio: Lamento d’Arianna

“Dove, dov’è la fede”, dal Lamento d’Arianna di Claudio Monteverdi (1608; “Lamento di Arianna”); da un’esecuzione del 2006 di Delitiæ Musicæ, sotto la direzione di Marco Longhini.

Per gentile concessione di Naxos of America, Inc.

Alcuni mesi dopo la produzione di Orfeo, Monteverdi subì la perdita della moglie, apparentemente dopo una lunga malattia. Si ritirò in uno stato di profonda depressione nella casa paterna di Cremona, ma fu richiamato quasi subito a Mantova per comporre una nuova opera nell’ambito dei festeggiamenti per il matrimonio dell’erede al ducato, Francesco Gonzaga, con Margherita di Savoia. Monteverdi tornò controvoglia e fu prontamente sommerso da un’enorme quantità di lavoro. Compose non solo un’opera ma anche un balletto e la musica per un intermezzo di un’opera teatrale. Un ulteriore disastro si verificò quando l’opera, L’Arianna, era in prova, perché la primadonna, una giovane ragazza che aveva vissuto in casa di Monteverdi, forse come allieva di sua moglie, morì di vaiolo. Tuttavia, la parte fu rifusa e l’opera fu finalmente prodotta nel maggio 1608. Fu un enorme successo. La partitura è andata perduta, tranne il famoso “Lamento”, che sopravvive in varie versioni ed è la prima grande scena operistica (cioè una scena di particolare effetto drammatico, di solito con arie).

Dopo questo enorme sforzo, Monteverdi tornò di nuovo a Cremona in una condizione di collasso, che sembra essere durata a lungo. Gli fu ordinato di tornare a Mantova nel novembre 1608, ma si rifiutò di andarci. Alla fine tornò, ma da allora in poi odiò la corte dei Gonzaga, che secondo lui lo aveva sottovalutato e sottopagato, anche se ottenne un aumento di paga e una piccola pensione per il suo successo con L’Arianna. Non sembra, comunque, essere stato poco creativo, anche se la musica che scrisse nell’anno successivo o giù di lì riflette la sua depressione. Arrangiò il “Lamento” come madrigale a cinque voci e scrisse una tiritera madrigalistica sulla morte della sua primadonna. La sestina, pubblicata più tardi nel sesto libro di madrigali, rappresenta l’apice della musica dissonante e agonizzante in questo stile. In una vena più vigorosa, scrisse della musica da chiesa, che pubblicò nel 1610 in un volume contenente una messa in stile antico e musica per vespri nelle feste della Beata Vergine Maria. La messa fu un risultato notevole, un tentativo deliberato di mostrare che l’idioma polifonico era ancora possibile quando ovunque stava morendo. Ancora più notevole è la musica per i vespri, un compendio virtuale di tutti i tipi di musica da chiesa moderna possibile a quel tempo – grandi impostazioni di salmi alla maniera veneziana, musica virtuosa per cantanti solisti, musica strumentale usata per gli interludi nel servizio, persino un tentativo di usare musica operistica aggiornata per impostare le parole espressive ed emotive del Magnificat. Tuttavia, sebbene questa musica sia la più “avanzata” possibile, Monteverdi la rende un’estensione dell’antica tradizione, usando melodie di canti popolari – antichi canti liturgici non accompagnati – come materiale tematico per i salmi e i Magnificat. Soprattutto, è musica della Controriforma; usando tutti i mezzi, tradizionali e nuovi, secolari e religiosi, è progettata per impressionare l’ascoltatore con la potenza della Chiesa Cattolica Romana e del suo Dio.

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