Il Movimento Cinque Stelle ha tenuto un congresso il 14-15 novembre per determinare il futuro del partito. Il congresso è arrivato dopo i deludenti risultati delle elezioni regionali e un calo sostenuto nei sondaggi di opinione dalle ultime elezioni generali italiane del 2018. Maria Giovanna Sessa e Giacomo Riccio scrivono che il partito deve decidere se abbracciare la sua posizione di attore politico mainstream o rivendicare le sue credenziali anti-sistema.
Il 20-21 settembre, gli italiani hanno votato in un referendum costituzionale per ridurre il parlamento del paese di circa un terzo delle sue dimensioni. Gli emendamenti sono stati approvati da poco meno del 70% dei votanti, convinti dalla prospettiva di un risparmio sui costi e di una maggiore efficienza.
Anche se il referendum contava sul sostegno dei principali partiti di governo e di opposizione, il Movimento 5 Stelle (M5S) ha rivendicato il risultato come una vittoria. Tuttavia, tale ottimismo non ha potuto essere esteso alle elezioni che sette regioni italiane hanno tenuto nello stesso momento. Le due votazioni costituiscono un interessante punto di riferimento per valutare la performance del Movimento 5 Stelle, a metà della sua seconda esperienza di governo.
Da astro nascente a stella cadente
Il “populismo di valenza” del M5S gli permette di concentrarsi su temi non posizionali di raccolta del consenso, categoria in cui rientra certamente il referendum costituzionale, visto che è stato politicizzato come la prima di molte riforme volte alla potatura burocratica e veicolate attraverso un meccanismo di democrazia diretta. Sebbene la semplificazione delle questioni politiche a una risposta sì o no da parte del pubblico si sia rivelata un successo per il partito, i risultati del più deliberativo voto regionale (dove non sono riusciti a vincere nessuno dei sette concorsi) hanno rivelato le sue debolezze.
Da quando ha vinto il maggior numero di voti di qualsiasi partito alle elezioni generali del 2018, l’antisistema M5S è passato da una posizione di rifiuto del compromesso con altri partiti (un atto impossibile nel sistema elettorale proporzionale italiano) ad accettare una collaborazione tema per tema con soggetti terzi. Questo ha portato a un primo gabinetto in coalizione con la Lega, che è stato seguito da una seconda coalizione con il suo “nemico diventato amico”, il Partito Democratico.
Il partito è attualmente diviso tra due strategie concorrenti. Da un lato, ha spesso agito come un movimento, imbarcandosi in crociate monotematiche. Tuttavia, come membro del governo, ha ora l’obbligo di prendere posizione su una serie completa di questioni politiche, il che porta al confronto – anche se il partito ha sempre rifiutato il fazionalismo. Di recente, lo storico motto “uno vale uno” ha cominciato a suonare più come la sistematica messa a tacere di un sano dibattito interno, piuttosto che come un canto egualitario.
Fondazioni locali deboli
Comprese le elezioni di gennaio, quest’anno il M5S ha vissuto una debacle elettorale in nove regioni italiane, sottolineando le sue deboli basi territoriali. Questo è stato evidente nell’ultimo ballottaggio, dove sono stati premiati attori in carica con una forte presenza locale: Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia per il Partito Democratico, Giovanni Toti in Liguria e Luca Zaia in Veneto per il centrodestra.
I costi di questa assenza territoriale erano già emersi in seguito alle elezioni nazionali del 2018, quando il M5S, dopo essere riuscito a rompere la tradizionale tendenza della politica italiana a spostarsi tra destra e sinistra, non è riuscito successivamente a vincere nessuna elezione locale. La scarsa performance del partito è stata imputata alla sua natura “virtuale”, che fa sì che la sua rilevanza a livello nazionale scompaia dai radar quando si tratta di politica locale. Virginia Raggi, attuale sindaco di Roma, e Chiara Appendino, sindaco di Torino, sono le eccezioni che confermano la regola.
In generale, le elezioni regionali hanno segnato un ritorno al bipolarismo di lunga data tra il centro-destra – principalmente la Lega e Fratelli d’Italia, che ha continuato la sua recente ascesa di popolarità – e il Partito Democratico nel centro-sinistra. Mentre la mancanza di un’identità consolidata ha permesso al M5S di governare con entrambi questi poli, ha anche infranto l’illusione che il partito potesse diventare il perno chiave nella creazione di coalizioni. Piuttosto, il partito assomiglia attualmente a una pedina in un gioco politico che sta aiutando gli altri a vincere.
Dove si va?
Il M5S ha urgente bisogno di un cambiamento di rotta o rischia l’estinzione. Una prima possibile soluzione per restare a galla sarebbe quella di tornare all’opposizione abbandonando il gravoso ruolo di decisore e tornando al suo ruolo originario di “decisore”. Tuttavia, gli eletti del M5S sembrano aver comodamente abbracciato i vantaggi della carica e convincerli a rinunciare a questo biglietto della lotteria potrebbe essere più facile a dirsi che a farsi, soprattutto nel contesto di un parlamento ridimensionato.
Un’altra opzione sarebbe quella di accettare la natura della politica come arte del possibile, una prospettiva recentemente prevista dall’ex leader del partito, Luigi di Maio. Questa prova di maturità politica avrebbe l’inevitabile costo di lasciare indietro alcuni seguaci – il M5S ha già perso 24 deputati a favore di altri partiti dall’inizio della legislatura. In ogni caso, la nomina di un nuovo leader è stata vista come cruciale per superare l’animosità verso l’attuale leadership, accusata di non avere il polso per affermare l’agenda del partito su quella del Partito Democratico. Dopo che vari rappresentanti politici hanno ripetutamente proposto un congresso per discutere la direzione futura del partito, è stata finalmente organizzata una convenzione, denominata “Stati Generali”.
Questa convenzione virtuale senza precedenti ha avuto tre fasi distinte. Un’assemblea nazionale il 14-15 novembre ha concluso le riunioni provinciali e regionali che si sono tenute alla fine di ottobre. I “padri fondatori” Beppe Grillo e Davide Casaleggio hanno rifiutato di unirsi ai 30 relatori (attivisti e politici di spicco) che sono stati selezionati per definire il tipo di leadership, di organizzazione e di regole interne che il M5S dovrebbe abbracciare. L’esito della deliberazione ha preso la forma di una serie di linee guida unitarie ma non definitive che i sostenitori del partito approveranno nei prossimi giorni attraverso la piattaforma di democrazia partecipativa Rousseau, i cui fondi sono stati recentemente tagliati (altro sintomo del malessere interno del partito).
Per ora, lo scontro sembra essere tra la linea di governo promossa da Luigi Di Maio, e quella dissidente che incarna Alessandro Di Battista. Quest’ultimo è fuggito dalla scena politica nel 2018, ma ora sembra pronto a fare un ritorno e forse ad agire come il salvatore di cui il partito ha così disperatamente bisogno. Non sorprende che l’attuale leadership non sia stata troppo entusiasta dell’intera idea della convention e abbia dato un benvenuto decisamente freddo a Di Battista al suo ritorno. Di Battista incarna potenzialmente quel vento di cambiamento capace di sfidare sia l’attuale leadership, che si dice abbia tradito il mandato originario del popolo unendosi all'”élite”, sia l’accordo permanente con il Partito Democratico.
Alla fine, il M5S dovrà decidere quale strada percorrere: se riconoscere la sua conversione mainstream o rivendicare le sue credenziali anti-sistema, prima che un altro giocatore si presenti per riempire quelle scarpe.
Nota: Questo articolo riporta le opinioni degli autori, non la posizione di EUROPP – European Politics and Policy o della London School of Economics. Immagine in evidenza: Movimento 5 Stelle