Lingua latina, lingua Latina, lingua indoeuropea del gruppo italico e antenata delle moderne lingue romanze.
Originariamente parlato da piccoli gruppi di persone che vivevano lungo il basso Tevere, il latino si diffuse con l’aumento del potere politico romano, prima in tutta l’Italia e poi in gran parte dell’Europa occidentale e meridionale e nelle regioni costiere del Mediterraneo centrale e occidentale dell’Africa. Le moderne lingue romanze si sono sviluppate dal latino parlato in varie parti dell’Impero Romano. Durante il Medioevo e fino a tempi relativamente recenti, il latino era la lingua più usata in Occidente per scopi accademici e letterari. Fino alla seconda parte del 20° secolo il suo uso era richiesto nella liturgia della Chiesa Cattolica Romana.
Il più antico esempio di latino esistente, forse risalente al 7° secolo a.C., consiste in un’iscrizione di quattro parole in caratteri greci su una fibula, o spilla da mantello. Mostra la conservazione di vocali piene in sillabe non accentuate – in contrasto con la lingua in epoche successive, che ha vocali ridotte. Il latino antico aveva l’accento sulla prima sillaba di una parola, in contrasto con il latino dei periodi repubblicano e imperiale, in cui l’accento cadeva o sulla successiva o sulla penultima sillaba di una parola.
Il latino del periodo classico aveva sei casi regolarmente usati nella declinazione dei nomi e degli aggettivi (nominativo, vocativo, genitivo, dativo, accusativo, ablativo), con tracce di un caso locativo in alcune classi declensionali di nomi. Ad eccezione delle classi declensionali i-stem e consonantica stem, che combina in un unico gruppo (elencate nei libri di grammatica come terza declinazione), il latino ha mantenuto distinte la maggior parte delle classi declensionali ereditate dall’indoeuropeo.
Durante il periodo classico c’erano almeno tre tipi di latino in uso: Il latino classico scritto, il latino classico oratorio e il latino colloquiale ordinario usato dal parlante medio della lingua. Il latino parlato continuava a cambiare e si discostava sempre più dalle norme classiche nella grammatica, nella pronuncia e nel vocabolario. Durante il periodo classico e l’immediato post-classico, numerose iscrizioni forniscono la fonte principale del latino parlato, ma, dopo il III secolo ce, furono scritti molti testi in uno stile popolare, solitamente chiamato latino volgare. Scrittori come San Girolamo e Sant’Agostino, tuttavia, alla fine del IV e all’inizio del V secolo, scrissero un buon latino tardo letterario.
Il successivo sviluppo del latino continuò in due modi. Primo, la lingua si sviluppò sulla base delle forme parlate locali e si evolse nelle moderne lingue romanze e nei dialetti. In secondo luogo, la lingua continuò in una forma più o meno standardizzata per tutto il Medioevo come lingua della religione e dell’erudizione; in questa forma ebbe grande influenza sullo sviluppo delle lingue dell’Europa occidentale.
Le testimonianze sulla pronuncia del latino classico sono spesso difficili da interpretare. L’ortografia è convenzionalizzata e i commenti dei grammatici mancano di chiarezza, cosicché per descriverla è necessario estrapolare in larga misura dagli sviluppi successivi della lingua romanza.
La più importante delle ambiguità riguarda l’intonazione e l’accentuazione latina. Il modo in cui le vocali si sono sviluppate nel latino preistorico suggerisce la possibilità di un accento sulla prima sillaba di ogni parola; in tempi successivi, invece, l’accento cadeva sulla penultima sillaba o, quando questa aveva quantità “leggera”, sull’antepenultima. La natura di questo accento è fortemente contestata: i grammatici contemporanei sembrano suggerire che fosse un accento musicale, tonale e non un accento di stress. Alcuni studiosi sostengono, tuttavia, che i grammatici latini stavano semplicemente imitando pedissequamente le loro controparti greche e che il legame dell’accento latino con la lunghezza della vocale della sillaba rende improbabile che tale accento fosse tonale. Probabilmente si trattava di un accento leggero che era normalmente accompagnato da un aumento di tono; nel latino più tardo, l’evidenza suggerisce che l’accento divenne più pesante.
Il sistema della quantità di sillabe, connesso con quello della lunghezza delle vocali, deve aver dato al latino classico un carattere acustico distintivo. A grandi linee, una sillaba “leggera” terminava con una vocale breve e una sillaba “pesante” con una vocale lunga (o dittongo) o una consonante. La distinzione deve essersi riflessa in qualche misura nel tardo latino o nel primo romanticismo, perché, anche dopo che il sistema della lunghezza delle vocali fu perso, le sillabe leggere, o “aperte”, spesso si sviluppavano in modo diverso dalle sillabe pesanti, o “chiuse”.
Perché il sistema della lunghezza delle vocali fu perso dopo il periodo classico, non si sa con certezza come le vocali fossero pronunciate in quel periodo; ma, a causa dei successivi sviluppi della lingua romanza, si suppone che le distinzioni di lunghezza delle vocali fossero anche associate a differenze qualitative, nel senso che le vocali brevi erano più aperte, o lasse, delle vocali lunghe. L’ortografia standard non distingueva tra vocali lunghe e brevi, anche se nei primi tempi si cercò di rimediare con vari espedienti. Alla fine della Repubblica Romana un cosiddetto apice (una forma che assomigliava un po’ a una hamza ) veniva spesso usato per marcare la vocale lunga, ma questo marchio fu sostituito in tempi imperiali da un accento acuto (′ ). Nel latino classico il sistema di lunghezza era una caratteristica essenziale del verso, anche di quello popolare, e gli errori nella lunghezza delle vocali erano considerati barbari. In tempi successivi, tuttavia, molti poeti erano ovviamente incapaci di conformarsi alle richieste della prosodia classica e furono criticati per aver permesso all’accento di prevalere sulle distinzioni di lunghezza.
Oltre alle vocali lunghe ā, ē, ī, ō, ū e alle vocali brevi ă, ĕ, ĭ, ŏ, ŭ il discorso colto del periodo classico usava anche una vocale anteriore arrotondata, un suono preso dal greco upsilon e pronunciato un po’ come la u francese (simboleggiata dalla y nell’alfabeto fonetico internazionale-IPA) nelle parole prese in prestito dal greco; nel discorso popolare questa veniva probabilmente pronunciata come la latina ŭ, anche se in tempi successivi ī veniva talvolta sostituita. Una vocale neutra era probabilmente usata in alcune sillabe non accentate ed era scritta u o i (optumus, optimus ‘migliore’), ma quest’ultima resa divenne standard. Una ē lunga, da ei precedente, si era probabilmente completamente fusa con ī nel periodo classico. La pronuncia classica usava anche alcuni dittonghi pronunciati dai romani istruiti più o meno come sono scritti, specialmente ae (prima ai), pronunciato forse come una ē aperta nel discorso rustico, au (ō aperto rustico), e oe (prima oi, ē tardo latino).
Il sistema consonantico latino classico includeva probabilmente una serie di suoni labiali (prodotti con le labbra) /p b m f/ e probabilmente /w/; una serie dentale o alveolare (prodotta con la lingua contro i denti anteriori o la cresta alveolare dietro i denti anteriori superiori) /t d n s l/ e forse /r/; una serie velare (prodotta con la lingua che si avvicina o contatta il velum o il palato molle) /k g/ e forse /ŋ/; e una serie labiovelare (pronunciata con le labbra arrotondate) /kw gw/. Il suono /k/ era scritto c, e le /kw/ e /gw/ erano scritte rispettivamente qu e gu.
Di queste, /kw/ e /gw/ erano probabilmente consonanti velari labializzate singole, non cluster, poiché non formano una sillaba pesante; /gw/ si verifica solo dopo /n/, quindi si possono fare solo ipotesi sul suo status di consonante singola. Il suono rappresentato da ng (pronunciato come in inglese sing e rappresentato nell’IPA da /ŋ/), scritto ng o gn, potrebbe non aver avuto status fonemico (nonostante la coppia annus/agnus ‘anno’/’agnello,’ in cui /ŋ/ può essere considerato una variante posizionale di /g/). La lettera f latina rappresentava probabilmente in epoca classica un suono labiodentale pronunciato con il labbro inferiore che tocca i denti anteriori superiori come il suo equivalente inglese, ma prima potrebbe essere stata una bilabiale (pronunciata con le due labbra che si toccano o si avvicinano). Le cosiddette consonantiche i e u probabilmente non erano vere consonanti ma semivoci senza attrito; prove romanze suggeriscono che più tardi divennero una fricativa palatale, /j/ (pronunciata con la lingua che tocca o si avvicina al palato duro e con chiusura incompleta) e una fricativa bilabiale, /β/ (pronunciata con vibrazione delle labbra e chiusura incompleta), ma non vi è alcun suggerimento di questo durante il periodo classico. Alcuni studiosi romanzi suggeriscono che la s latina aveva una pronuncia simile a quella della z nel castigliano moderno (con la punta, piuttosto che la lama, sollevata dietro i denti, dando un’impressione di biascicanza); nel primo latino era spesso indebolita in posizione finale, una caratteristica che caratterizza anche le lingue romanze orientali. La r era probabilmente un trillo della lingua durante il periodo classico, ma ci sono prove precedenti che in alcune posizioni possa essere stata una fricativa o un flap. C’erano due tipi di l, velare e palatale (“molle”, quando seguita da i).
Le consonanti nasali erano probabilmente debolmente articolate in alcune posizioni, specialmente medialmente prima di s e in posizione finale; probabilmente la loro posizione mediale o finale comportava una semplice nasalizzazione della vocale precedente.
In aggiunta alle consonanti mostrate, i parlanti romani istruiti probabilmente usavano una serie di arresti aspirati senza voce, scritti ph, th, ch, originariamente presi in prestito da parole greche ma che si trovano anche in parole native (pulcher ‘bello,’ lachrima ‘lacrime,’ triumphus ‘trionfo,’ ecc.) dalla fine del II secolo a.C.
Un altro suono non vocalico, /h/, era pronunciato solo da parlanti istruiti anche nel periodo classico, e sono frequenti i riferimenti alla sua perdita nel linguaggio volgare.
Le consonanti scritte doppie nel periodo classico erano probabilmente così pronunciate (una distinzione era fatta, per esempio, tra anus ‘vecchia donna’ e annus ‘anno’). Quando la i consonantica appariva intervocalica, era sempre raddoppiata nel parlato. Prima del II secolo a.C., la geminazione consonantica (raddoppio dei suoni) non era indicata nell’ortografia ma era probabilmente corrente nel parlato. Le lingue romanze orientali, nel complesso, hanno mantenuto le consonanti doppie latine (come in italiano), mentre le lingue occidentali le hanno spesso semplificate.
Il latino ha ridotto il numero di casi sostantivati indoeuropei da otto a sei incorporando il sociativo-strumentale (che indica i mezzi o l’ente) e, a parte forme isolate, il locativo (che indica il luogo o il luogo dove) nel caso ablativo (che originariamente indicava le relazioni di separazione e di origine). Il numero duale fu perso, e una quinta declinazione sostantivata fu sviluppata da un insieme eterogeneo di sostantivi. Probabilmente prima dell’epoca romanza il numero di casi fu ulteriormente ridotto (ce n’erano due nel francese antico – il nominativo, usato per il soggetto di un verbo, e l’obliquo, usato per tutte le altre funzioni – e il rumeno oggi ne ha due, nominativo-accusativo, usato per il soggetto e l’oggetto diretto di un verbo, e genitivo-dativo, usato per indicare il possesso e l’oggetto indiretto di un verbo), e le parole della quarta e quinta declinazione furono assorbite nelle altre tre o perse.
Tra le forme verbali, l’aoristo indoeuropeo (che indica il semplice verificarsi di un’azione senza riferimento alla durata o al completamento) e il perfetto (che indica un’azione o uno stato completato al momento dell’enunciazione o in un momento parlato) si combinarono, e il congiuntivo (che esprime idee contrarie ai fatti) e l’ottativo (che esprime un desiderio o una speranza) si fusero per formare il congiuntivo. Nuove forme di tempo che si svilupparono furono il futuro in -bō e l’imperfetto in -bam; si sviluppò anche un passivo in -r, che si trova anche in celtico e tocchino. Si formarono nuovi tempi passivi composti con il participio perfetto e esse ‘essere’ (ad esempio, est oneratus ‘lui, lei, era oppresso’) – tali tempi composti si svilupparono ulteriormente nel romancio. In generale, la morfologia del periodo classico era codificata e le forme fluttuanti rigidamente fissate. Anche nella sintassi, la precedente libertà fu limitata; così, l’uso dell’accusativo e dell’infinito nell’oratio obliqua (“discorso indiretto”) divenne obbligatorio, e fu richiesta una sottile discriminazione nell’uso del congiuntivo. Laddove gli scrittori precedenti avrebbero potuto usare frasi preposizionali, gli autori classici preferivano le forme nominali nude in quanto più brevi ed esatte. Frasi complesse con un uso sottile di congiunzioni distintive erano una caratteristica della lingua classica, e si giocava efficacemente con le possibilità offerte dall’ordine flessibile delle parole.
Nell’era post-classica, lo stile ciceroniano venne considerato faticoso e noioso, e uno stile epigrammatico compresso venne preferito da scrittori come Seneca e Tacito. Contemporaneamente e un po’ più tardi, la scrittura florida ed esuberante – spesso chiamata africana – divenne di moda, esemplificata soprattutto da Apuleio (II secolo a.C.). L’imitazione dei modelli classici e postclassici continuò anche nel VI secolo, e sembra che ci sia stata una continuità di tradizione letteraria per qualche tempo dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
La crescita dell’impero diffuse la cultura romana in gran parte dell’Europa e del Nord Africa. In tutte le zone, anche negli avamposti, non penetrava solo il rozzo linguaggio delle legioni, ma anche, sembra, le finezze del verso virgiliano e della prosa ciceroniana. Le ricerche del tardo XX secolo hanno suggerito che in Gran Bretagna, per esempio, la romanizzazione era più diffusa e più profonda di quanto fino ad allora sospettato e che i britannici benestanti della regione colonizzata erano completamente impregnati di valori romani. Fino a che punto questi arrivarono alla gente comune è difficile da dire. Poiché il latino si è estinto in Gran Bretagna, si pensa spesso che sia stato usato solo dall’élite, ma alcuni suggeriscono che sia stato il risultato di un massacro all’ingrosso degli inglesi romani. È tuttavia più probabile che il modello degli insediamenti anglosassoni non fosse in conflitto con i Romano-Celtici e che questi ultimi siano stati gradualmente assorbiti nella nuova società.